Oggi è stata una
bellissima giornata, forse la più bella di tutta la mia triste e tediosa vita.
Erano anni che non impugnavo più la penna per mettere nero su bianco e dunque
immortalare le piccole e significative impressioni captate nell’arco del dì
appena trascorso.
Da un anno mi sono separato da Luana; appena una settimana fa ho rivisto
mia figlia Erica, affidata alla madre: con lei ho trascorso un intero
pomeriggio. Erica ha ormai dodici anni, è una bimba sveglia, vivace come una
trottola; abbiamo passeggiato per il centro e fatto un po’ di shopping: le ho
acquistato un maglione di lana marrone, che aderiva al suo corpicino, un cd di
musica classica (Bach, Concerti Brandeburghesi), che spero apprezzerà, e un libro (Le avventure di
Huckleberry Finn di Mark Twain), che spero
non abbandoni in un angolo della cameretta, dando la precedenza a tutte quelle
riviste femminili di moda e attualità che la madre le rifila. Con Luana ci
scambiamo ormai pochissime parole di finta cortesia (mai scandali di fronte a
Erica, ci siamo detti), ma nostra figlia lo percepisce benissimo che c’è un’insormontabile
parete invisibile tra sua madre e me, che c’impedisce di comunicare.
Com’è tutto finito miseramente! Non ho ancora trovato il coraggio di
tentare un serio approccio con altre donne, per ora. Mi limito ad andare una
volta alla settimana da una giovane, cortese e cinica prostituta, che riceve in
casa a Poggibonsi.
Mi sembra di essere tornato indietro di almeno quindici anni, quando attendevo ai miei solitari studi all’università, speranzoso di un futuro di gloria. Da giovani, colmi di illusione, si guarda al futuro; trascorsi alcuni anni, in preda alla disillusione, si volge lo sguardo al passato. Entrambi sono atteggiamenti sbagliati. Solo oggi ho finalmente compreso che occorre fissare l’attenzione nel presente, che lento diviene, trascorrendo dall’immediato passato al repentino futuro.
Mi sembra di essere tornato indietro di almeno quindici anni, quando attendevo ai miei solitari studi all’università, speranzoso di un futuro di gloria. Da giovani, colmi di illusione, si guarda al futuro; trascorsi alcuni anni, in preda alla disillusione, si volge lo sguardo al passato. Entrambi sono atteggiamenti sbagliati. Solo oggi ho finalmente compreso che occorre fissare l’attenzione nel presente, che lento diviene, trascorrendo dall’immediato passato al repentino futuro.
Purtroppo l’ho capito tardi. Ora sto già trasgredendo al nuovo
comandamento, poiché tento di tracciare la breve cronaca di questa gloriosa
giornata.
Stamani, appena è suonata la sveglia, ho capito che non sarei andato al
lavoro; ho telefonato a Luigi e mi sono dato per malato: ho notato una certa
incredulità nella sua voce. Sono infatti dieci anni che non mi assento neanche
una volta dal mio impiego. Prima o poi doveva accadere! “Ho deciso, oggi devo
riprendermi il mio tempo,” ho pensato “mi spetta di diritto, è un dono da
carpire. Oggi sarà una meravigliosa giornata!”.
Con questo squillante pensiero rintoccante nel cervello, mi sono levato
dal letto con un guizzo da delfino, ho scaldato l’acqua per il caffé lungo
(solubile, come piace a me), ho intiepidito il latte, l’ho versato nella
ciotola ricolma di croccanti corn-flakes e mi sono apparecchiato a pregustare
la lauta colazione. Nessun’ansia di arrivare tardi in ufficio mi turbava:
provavo solo amena serenità nel godere oziosamente di me stesso. Poi mi sono
fumato la prima sigaretta della giornata con evidente piacere, affacciandomi
sul balcone. Il sole già indorava le pareti dei palazzi di fronte, enormi
scatole stipate di appartamentini, con uguali finestre e balconi. Dei rondoni
piroettavano nel cielo stridendo, facendo la spola tra i rami degli alti platani
e i tetti del palazzo di fronte, già popolati da frotte di colombi, lì fermi
come guardie di vedetta.
Una delle vecchie signore dirimpetto innaffiava le sue begonie; un’altra
si affacciava sul balcone a tastare i panni messi ad asciugare il giorno prima,
con il bianco cagnolino shi-tzu trattenuto in un braccio. Uno studente
universitario, chino dietro la sua scrivania (vicino all’ampia finestra dalle
traslucide vetrate) si apprestava a compulsare il ponderoso tomo di chissà
quale incombente esame. Ma d’un tratto ebbi la fortuna di contemplare una
giovane studentessa universitaria affacciarsi al balcone per fumare la propria
sigaretta, di profilo, la crocchia bionda dei capelli rattenuta da un
fermaglio, l’alta, pallida e nobile fronte, il nasino piccolo e dalla punta
leggermente all’insù, gli zigomi alti, il seno celato da una maglia di lana
blu; eloquentemente silenziosa, come un quadro di Hopper.
Non l’avevo mai veduta prima affacciarsi a quell’ora, il suo profilo
baciato dal sole mattutino, i suoi capelli accarezzati dalla leggera brezza
fresca. Quante contemplazioni m’ero finora perso per colpa del tran-tran
quotidiano! Neanche la domenica mattina l’avevo veduta, destandosi lei molto
tardi, reduce da chissà quali gioiose feste.
Ero davvero felice. Diedi una breve pulitina al mio appartamentino da
scapolo. Riempii le tre piccole scatole dei rifiuti: organici, carta, lattine
insieme a vetro e plastica; un motivetto musicale mi ronzava nelle orecchie,
come un mormorio d’arnie nella canicola. Decisi anche di cambiarmi, al posto
del solito grigio abito, con tanto di cravatta stinta e boriosa, indossai
jeans, una camicia bianca sportiva, un maglioncino verde-chiaro e scarpe da
tennis. Indossai poi un giubbetto sportivo e uscii con le tre scatole dei
rifiuti in mano fischiettando. Era rischioso uscire a quell’ora: qualcuno
poteva vedermi, interrogarsi, e di certo la notizia sarebbe giunta alle orecchie
del mio principale. “Allora non è vero che è malato! Ma cosa gli è accaduto? È
forse impazzito? Non è mai capitato che si assentasse dal lavoro. Un simile
comportamento da parte sua è inaccettabile!”: questo e altro avrebbe rimuginato
il mio principale, ma sinceramente in quel momento non me ne importava nulla,
quello era il mio giorno, avrei recuperato in un baleno il tempo perduto dietro
tutte le inutili scartoffie dell’ufficio. Niente più carte da ricopiare, moduli
da compilare, manuali da leggere, pratiche da sbrigare, al diavolo tutto
quanto! Anche se rischiavo il posto di lavoro non me ne importava. Oggi avrei
oziato!
Svuotai le scatole dei rifiuti abbandonandole poi ai piedi dei tre
cassonetti (giallo, verde, arancione).
Le foglie erano gialle, molte crocchiavano riarse ai miei passi. Scorsi
due ragazzine bighellonare allegre lungo la strada. Avranno avuto tra i
quindici e i sedici anni, una dai capelli rossi, l’altra neri. Quando furono
abbastanza vicine rivolsi loro la parola.
«Non siete andate oggi a scuola?» chiesi spudoratamente. Le due fanciulle
si scambiarono un’occhiata preoccupata. La rossa si fece coraggio e rispose:
«No, signore, ma i nostri genitori non lo sanno, la prego, mantenga il
segreto...»
«E dove state andando?»
«Nel pub qua vicino.»
«Ma è aperto di mattina?»
«Ufficialmente è aperta solo la sala prospiciente l’ingresso, ma nel
salone nascosto nel retro il pub è pieno di studenti che marinano la scuola.»
«Fatemi strada, che vengo con voi.»
«D’accordo...»
«Potrei sapere prima i vostri nomi?»
La rossa, come al solito, si prese la briga di rispondere: «Io sono
Sandra e lei è Mila!»
«Molto piacere, il mio nome è Alessandro!»
Le seguii con il sorriso stampato nel viso; confabulavano tra loro
ridacchiando e ogni tanto voltandosi, probabilmente una simile cosa non gli era
mai capitata; c’è sempre una prima volta; almeno anch’io mi sarei nascosto per
un po’ in attesa di decidere cos’altro fare nell’arco di quella meravigliosa
giornata.
Sorbii vodka e succo d’arancia, spaparanzato dietro un tavolo dalla
tovaglia verde, in penombra, chiacchierando con le due ragazzine molto
incuriosite dal mio atteggiamento. In realtà c’erano solo due o tre studenti
nel retro, dove si estendeva la “sala segreta”, simile alla stiva d’una nave.
Uno addirittura se la dormiva della grossa con il viso poggiato s’un tavolo
accanto a un enorme calice di birra, in condizioni peggiori del più incallito
bevitore d’assenzio di fine Ottocento. Altri due confabulavano fumando, non
prestando minimamente attenzione a noi.
«Marinate spesso la scuola?» cominciai a chiedere, disinibendomi sempre
di più. Sandra si fece carico di rispondere al mio affettuoso interrogatorio,
sorbendo ogni tanto la sua birra.
«Questa è la seconda volta che lo facciamo, signor Alessandro!»
«Frena! Frena! Non chiamarmi più “signor Alessandro”! Chiamami piuttosto
Alex!»
«Ok, Alex!»
«Ma, voglio dire, ci state prendendo gusto?»
«Un po’ sì. La scuola è una noia mortale e oggi la prof. d’inglese
interrogava.»
«Concordo con voi, anch’io odiavo andare a scuola, in realtà sono sempre
stato un autodidatta, tutto quello che ho imparato l’ho imparato da solo.
Comunque anch’io oggi ho marinato il lavoro!»
«Davvero, come mai?»
«Non lo so, non c’è un motivo, o almeno non mi è ancora ben chiaro, si tratta per lo più d’un’oscura
sensazione, mi sono svegliato con l’idea
che oggi è il giorno, il mio
giorno, il giorno più lungo, forse quello decisivo. È il mio primo giorno
autentico e forse l’ultimo!»
«È molto strano quello che dici, Alex!»
«Concordo, è strano, vago, confuso, forse sto solo impazzendo! Ha! Ha! Ma
sai cosa? Finalmente non m’importa più di quello che pensa la gente di me. Ho
finito di preoccuparmi.»
«Ma... sei sposato?»
«Felicemente divorziato: ho anche una figlia di dodici anni, che però
vedo di rado. Ma non parliamo ora di cose tristi. Parliamo piuttosto di voi.
Avete il ragazzo?»
A questa mia impudente domanda s’imporporarono pudicamente.
«Io no» rispose Sandra, «invece Mila si è da poco lasciata!»
«Davvero? E perché ti sei lasciata col tuo boyfriend, Mila?»
«Mi... mi trattava male!»
«Che mascalzone. Come fa a trattar male un angioletto come te? Che
canaglia! Vedrai che se lo incontriamo gliene dico quattro. Gliel’insegno io a
maltrattare le ragazzine!»
A queste mie minacce Sandra e Mila si spaventarono un po’.
«Alex... sei sicuro di stare bene?» chiese Sandra titubante.
«Mai stato meglio in vita mia! Sapete una cosa? Stamattina finalmente
dopo tanti anni mi sono innamorato!»
«Ah sì? E di chi?»
«Di una meravigliosa studentessa universitaria che abita proprio di
fronte a casa mia. Mi è apparsa con la sigaretta tra le dita, come una Dea, un’epifania!»
«E le rivelerà il suo amore?»
«Forse che si forse che no. Ho già combinato troppi guai nella mia vita!»
E qui mi rabbuiai all’improvviso, come i tardi pomeriggi invernali;
ripresi il controllo su di me; scolai il cocktail; mi congedai gentilmente
dalle due fanciulle, passai al bancone per pagare anche le loro birre e m’involai
come un piccolo rondinino ferito dal nido.