lunedì 30 aprile 2012

UNA BELLISSIMA GIORNATA: Il quaderno di un nevrastenico (Cap. I)


Oggi è stata una bellissima giornata, forse la più bella di tutta la mia triste e tediosa vita. Erano anni che non impugnavo più la penna per mettere nero su bianco e dunque immortalare le piccole e significative impressioni captate nell’arco del dì appena trascorso.
Da un anno mi sono separato da Luana; appena una settimana fa ho rivisto mia figlia Erica, affidata alla madre: con lei ho trascorso un intero pomeriggio. Erica ha ormai dodici anni, è una bimba sveglia, vivace come una trottola; abbiamo passeggiato per il centro e fatto un po’ di shopping: le ho acquistato un maglione di lana marrone, che aderiva al suo corpicino, un cd di musica classica (Bach, Concerti Brandeburghesi), che spero apprezzerà, e un libro (Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain), che spero non abbandoni in un angolo della cameretta, dando la precedenza a tutte quelle riviste femminili di moda e attualità che la madre le rifila. Con Luana ci scambiamo ormai pochissime parole di finta cortesia (mai scandali di fronte a Erica, ci siamo detti), ma nostra figlia lo percepisce benissimo che c’è un’insormontabile parete invisibile tra sua madre e me, che c’impedisce di comunicare.
Com’è tutto finito miseramente! Non ho ancora trovato il coraggio di tentare un serio approccio con altre donne, per ora. Mi limito ad andare una volta alla settimana da una giovane, cortese e cinica prostituta, che riceve in casa a Poggibonsi. 
Mi sembra di essere tornato indietro di almeno quindici anni, quando attendevo ai miei solitari studi all’università, speranzoso di un futuro di gloria. Da giovani, colmi di illusione, si guarda al futuro; trascorsi alcuni anni, in preda alla disillusione, si volge lo sguardo al passato. Entrambi sono atteggiamenti sbagliati. Solo oggi ho finalmente compreso che occorre fissare l’attenzione nel presente, che lento diviene, trascorrendo dall’immediato passato al repentino futuro.
Purtroppo l’ho capito tardi. Ora sto già trasgredendo al nuovo comandamento, poiché tento di tracciare la breve cronaca di questa gloriosa giornata.
Stamani, appena è suonata la sveglia, ho capito che non sarei andato al lavoro; ho telefonato a Luigi e mi sono dato per malato: ho notato una certa incredulità nella sua voce. Sono infatti dieci anni che non mi assento neanche una volta dal mio impiego. Prima o poi doveva accadere! “Ho deciso, oggi devo riprendermi il mio tempo,” ho pensato “mi spetta di diritto, è un dono da carpire. Oggi sarà una meravigliosa giornata!”.
Con questo squillante pensiero rintoccante nel cervello, mi sono levato dal letto con un guizzo da delfino, ho scaldato l’acqua per il caffé lungo (solubile, come piace a me), ho intiepidito il latte, l’ho versato nella ciotola ricolma di croccanti corn-flakes e mi sono apparecchiato a pregustare la lauta colazione. Nessun’ansia di arrivare tardi in ufficio mi turbava: provavo solo amena serenità nel godere oziosamente di me stesso. Poi mi sono fumato la prima sigaretta della giornata con evidente piacere, affacciandomi sul balcone. Il sole già indorava le pareti dei palazzi di fronte, enormi scatole stipate di appartamentini, con uguali finestre e balconi. Dei rondoni piroettavano nel cielo stridendo, facendo la spola tra i rami degli alti platani e i tetti del palazzo di fronte, già popolati da frotte di colombi, lì fermi come guardie di vedetta.
Una delle vecchie signore dirimpetto innaffiava le sue begonie; un’altra si affacciava sul balcone a tastare i panni messi ad asciugare il giorno prima, con il bianco cagnolino shi-tzu trattenuto in un braccio. Uno studente universitario, chino dietro la sua scrivania (vicino all’ampia finestra dalle traslucide vetrate) si apprestava a compulsare il ponderoso tomo di chissà quale incombente esame. Ma d’un tratto ebbi la fortuna di contemplare una giovane studentessa universitaria affacciarsi al balcone per fumare la propria sigaretta, di profilo, la crocchia bionda dei capelli rattenuta da un fermaglio, l’alta, pallida e nobile fronte, il nasino piccolo e dalla punta leggermente all’insù, gli zigomi alti, il seno celato da una maglia di lana blu; eloquentemente silenziosa, come un quadro di Hopper.
Non l’avevo mai veduta prima affacciarsi a quell’ora, il suo profilo baciato dal sole mattutino, i suoi capelli accarezzati dalla leggera brezza fresca. Quante contemplazioni m’ero finora perso per colpa del tran-tran quotidiano! Neanche la domenica mattina l’avevo veduta, destandosi lei molto tardi, reduce da chissà quali gioiose feste.
Ero davvero felice. Diedi una breve pulitina al mio appartamentino da scapolo. Riempii le tre piccole scatole dei rifiuti: organici, carta, lattine insieme a vetro e plastica; un motivetto musicale mi ronzava nelle orecchie, come un mormorio d’arnie nella canicola. Decisi anche di cambiarmi, al posto del solito grigio abito, con tanto di cravatta stinta e boriosa, indossai jeans, una camicia bianca sportiva, un maglioncino verde-chiaro e scarpe da tennis. Indossai poi un giubbetto sportivo e uscii con le tre scatole dei rifiuti in mano fischiettando. Era rischioso uscire a quell’ora: qualcuno poteva vedermi, interrogarsi, e di certo la notizia sarebbe giunta alle orecchie del mio principale. “Allora non è vero che è malato! Ma cosa gli è accaduto? È forse impazzito? Non è mai capitato che si assentasse dal lavoro. Un simile comportamento da parte sua è inaccettabile!”: questo e altro avrebbe rimuginato il mio principale, ma sinceramente in quel momento non me ne importava nulla, quello era il mio giorno, avrei recuperato in un baleno il tempo perduto dietro tutte le inutili scartoffie dell’ufficio. Niente più carte da ricopiare, moduli da compilare, manuali da leggere, pratiche da sbrigare, al diavolo tutto quanto! Anche se rischiavo il posto di lavoro non me ne importava. Oggi avrei oziato!
Svuotai le scatole dei rifiuti abbandonandole poi ai piedi dei tre cassonetti (giallo, verde, arancione).
Le foglie erano gialle, molte crocchiavano riarse ai miei passi. Scorsi due ragazzine bighellonare allegre lungo la strada. Avranno avuto tra i quindici e i sedici anni, una dai capelli rossi, l’altra neri. Quando furono abbastanza vicine rivolsi loro la parola.
«Non siete andate oggi a scuola?» chiesi spudoratamente. Le due fanciulle si scambiarono un’occhiata preoccupata. La rossa si fece coraggio e rispose:
«No, signore, ma i nostri genitori non lo sanno, la prego, mantenga il segreto...»
«E dove state andando?»
«Nel pub qua vicino.»
«Ma è aperto di mattina?»
«Ufficialmente è aperta solo la sala prospiciente l’ingresso, ma nel salone nascosto nel retro il pub è pieno di studenti che marinano la scuola.»
«Fatemi strada, che vengo con voi.»
«D’accordo...»
«Potrei sapere prima i vostri nomi?»
La rossa, come al solito, si prese la briga di rispondere: «Io sono Sandra e lei è Mila!»
«Molto piacere, il mio nome è Alessandro!»
Le seguii con il sorriso stampato nel viso; confabulavano tra loro ridacchiando e ogni tanto voltandosi, probabilmente una simile cosa non gli era mai capitata; c’è sempre una prima volta; almeno anch’io mi sarei nascosto per un po’ in attesa di decidere cos’altro fare nell’arco di quella meravigliosa giornata.
Sorbii vodka e succo d’arancia, spaparanzato dietro un tavolo dalla tovaglia verde, in penombra, chiacchierando con le due ragazzine molto incuriosite dal mio atteggiamento. In realtà c’erano solo due o tre studenti nel retro, dove si estendeva la “sala segreta”, simile alla stiva d’una nave. Uno addirittura se la dormiva della grossa con il viso poggiato s’un tavolo accanto a un enorme calice di birra, in condizioni peggiori del più incallito bevitore d’assenzio di fine Ottocento. Altri due confabulavano fumando, non prestando minimamente attenzione a noi.
«Marinate spesso la scuola?» cominciai a chiedere, disinibendomi sempre di più. Sandra si fece carico di rispondere al mio affettuoso interrogatorio, sorbendo ogni tanto la sua birra.
«Questa è la seconda volta che lo facciamo, signor Alessandro!»
«Frena! Frena! Non chiamarmi più “signor Alessandro”! Chiamami piuttosto Alex!»
«Ok, Alex!»
«Ma, voglio dire, ci state prendendo gusto?»
«Un po’ sì. La scuola è una noia mortale e oggi la prof. d’inglese interrogava.»
«Concordo con voi, anch’io odiavo andare a scuola, in realtà sono sempre stato un autodidatta, tutto quello che ho imparato l’ho imparato da solo. Comunque anch’io oggi ho marinato il lavoro!»
«Davvero, come mai?»
«Non lo so, non c’è un motivo, o almeno non mi è ancora ben chiaro, si tratta per lo più d’un’oscura sensazione, mi sono svegliato con l’idea che oggi è il giorno, il mio giorno, il giorno più lungo, forse quello decisivo. È il mio primo giorno autentico e forse l’ultimo!»
«È molto strano quello che dici, Alex!»
«Concordo, è strano, vago, confuso, forse sto solo impazzendo! Ha! Ha! Ma sai cosa? Finalmente non m’importa più di quello che pensa la gente di me. Ho finito di preoccuparmi.»
«Ma... sei sposato?»
«Felicemente divorziato: ho anche una figlia di dodici anni, che però vedo di rado. Ma non parliamo ora di cose tristi. Parliamo piuttosto di voi. Avete il ragazzo?»
A questa mia impudente domanda s’imporporarono pudicamente.
«Io no» rispose Sandra, «invece Mila si è da poco lasciata!»
«Davvero? E perché ti sei lasciata col tuo boyfriend, Mila?»
«Mi... mi trattava male!»
«Che mascalzone. Come fa a trattar male un angioletto come te? Che canaglia! Vedrai che se lo incontriamo gliene dico quattro. Gliel’insegno io a maltrattare le ragazzine!»
A queste mie minacce Sandra e Mila si spaventarono un po’.
«Alex... sei sicuro di stare bene?» chiese Sandra titubante.
«Mai stato meglio in vita mia! Sapete una cosa? Stamattina finalmente dopo tanti anni mi sono innamorato!»
«Ah sì? E di chi?»
«Di una meravigliosa studentessa universitaria che abita proprio di fronte a casa mia. Mi è apparsa con la sigaretta tra le dita, come una Dea, un’epifania!»
«E le rivelerà il suo amore?»
«Forse che si forse che no. Ho già combinato troppi guai nella mia vita!»
E qui mi rabbuiai all’improvviso, come i tardi pomeriggi invernali; ripresi il controllo su di me; scolai il cocktail; mi congedai gentilmente dalle due fanciulle, passai al bancone per pagare anche le loro birre e m’involai come un piccolo rondinino ferito dal nido.

lunedì 23 aprile 2012

LE CARCERI TEATRALI (Cap. I)


Capitolo I

Tempesta. Naufragio. Isola


(Il manoscritto è mutilo della prima pagina: si presume che l’autore parlasse brevemente di sé, delle sue origini e delle precedenti rotte commerciali).

Basterà dire che la mattina del diciannove marzo 184... la goletta nella quale mi trovavo salpò dalle Canarie diretta all’arcipelago di *, meta di fruttuosi commerci. La stiva traboccava di casse ricolme di merci e varia paccottiglia. Salii sul ponte, a poppa, dove pendeva una gabbietta di giunchi, che imprigionava una cicala, considerata dall’equipaggio di buon augurio: dal momento della partenza non levava più il suo canto al cielo.
Aspirai a pieni polmoni la brezza salmastra, mentre spruzzaglie di schiuma mi schiaffeggiavano il volto. Il sole ormai alto, riflesso dagli specchi delle onde, sembrava arridere al mio destino, ma ciurme di sinistri gabbiani sghignazzavano controvento, sfiorando talora le teste dei giovani marinai, dalle schiene ricurve, intenti a pulire il pontile della nave. I venti a elevate altezze sgombravano il cielo lucido, facendo accavallare una sull’altra le nubi lontane. La chiglia nera feriva il mare come un bisturi la carne viva, lasciando dietro la poppa una bianca cicatrice di spume che gorgogliavano. Volsi gli occhi alla quieta insenatura che ci accolse, alla giogaia scura delle alture, e alle case chiare come armenti in fuga. Contemplai i pennacchi di fumo lontani e la banderuola di latta a forma di gallo, che roteava lentamente in cima a una torre, lanciando barbagli, sola al sole. Il campanile della chiesa additava il cielo blu, come un pastore che indichi una cometa notturna. L’occhio vigile del faro si restringeva sempre più, finché tutto quanto non divenne un puntino nel mare. Colto da un leggero turbamento tornai in cabina.
Navigammo per due settimane, sospinti da un vento gagliardo, che cessò la mattina del quindicesimo giorno, insolitamente calda. Il sole sorse rossastro, come un occhio insanguinato, assorellato a una profondissima quiete; neri nembi lampeggianti si profilarono all’orizzonte, come schiere d’eserciti prima d’una battaglia. Udimmo un mesto mormorio di tuoni, simile all’improvviso rotolio d’un carro per un selciato sconnesso. Il vento si levò fortissimo, mentre la nave scivolava obliqua tra le onde sempre più gonfie. Un turbine d’acqua ci assalì, piegando un albero come un fuscello e lacerando le vele schioccanti: travolse la poppa e mandò in pezzi il timone. Un altro maroso, dal dorso loricato di spume, assalì la prua, scagliando due uomini in mare. Alcuni marinai calarono una scialuppa, ma la nave inclinava verso un lato sempre più pericolosamente, tant’è che decisi di tuffarmi: la corrente mi trascinò lontano con inopinata rapidità, come accade nei sogni. M’aggrappai a un ceppo dell’albero che era stato prima spezzato: vagava tra gli stracci d’alghe imputridite, che talora mi sfioravano il viso (eravamo quindi già penetrati nel Mar dei Sargassi?). Da quella distanza scorsi una gran falla, simile a un occhio, che s’apriva nella nera carena lucente di catrame. Udii uno schianto, che sconquassò la goletta. Il carcame rimase a galla, cominciando a vorticare tra le ondate, che cozzavano tra di loro. Vidi forse cinque uomini in mare: tre si aggrappavano a travi, pennoni, casse e barili, che dondolavano nell’acqua, ipnoticamente, come una nenia notturna sussurrata dalla nonna; gli altri due affogarono esausti. Udii urla, lamenti, e infine silenzio. Intanto una scialuppa beccheggiava verso di me, l’abbrancai da un lato: era integra, era vuota. I resti della nave roteavano giù nel gorgo sempre più veloci, come il gallo di latta schiaffeggiato dalla brezza. E vidi d’un tratto la poppa drizzarsi in alto, rimanendo immota come una lapide. Poi s’inabissò rapidamente.
Il fortunale, rapido com’era giunto, smorzò la sua forza: ero solo nel deserto del mare. Nella scialuppa trovai un barilotto d’acqua potabile, una cassa con biscotti umidi, un’altra con un tocco di manzo, flaconcini di medicamenti e un coltello a serramanico. Raccolsi dall’acqua un brandello di vela, per coprirmi di notte dal freddo e di giorno dall’arsura, moltiplicata dagli specchi delle onde. Sei giorni e sei notti andai alla deriva. La mattina del settimo giorno scorsi una lunga canoa scivolare verso di me. Era stata ottenuta da un gigantesco tronco d’albero. Al suo interno v’erano tre uomini, seminudi e forse meticci. Uno di loro abbandonò i remi e s’alzò, impugnando un oggetto oblungo e sottile, che mi parve una canna di bambù. Giunta la canoa molto vicina, l’uomo imboccò la cerbottana e vi soffiò deciso. In quell’attimo vidi le sue guance gonfiarsi e svuotarsi dell’aria, come una ranocchia immota nella ninfea dello stagno, e scorsi il pendaglio di metallo, a forma di serpente, oscillare e battere contro il petto, lanciando riflessi. Sentii una fitta nel braccio destro, come la puntura d’un ago, e perdetti conoscenza. Sognai un’enorme serpe marina che strisciava a fior d’acqua. D’un tratto fuoriusciva dai flutti e s’avvinghiava al mio corpo in sette spire; percepivo la frigida elasticità della guaina, ricoperta di parassiti: il rettile mi stava stritolava come un pulcino carpito dal nido. Al risveglio, scorsi l’isola.

Quella parte di costa, che potevo ammirare, poggiava s’uno zoccolo roccioso, dalle pareti scagliose e irte, ma non molto alte; qua e là vaneggiavano delle grotte, dove s’incuneava l’acqua marina, densa di riflessi; tre faraglioni erano a guardia dell’isola, rivestiti d’eriche e ginestre. Un’altura s’ergeva ripidissima da un lato e digradava dolcemente dall’altro, terminando in una baia, l’unico anfratto abbordabile. Gradualmente m’accorsi che una bianca città turrita copriva metà dell’isola, come una colata lavica: digradava verso l’insenatura, formando un vasto anfiteatro d’edifici, dall’acustica perfetta: potevo udire levarsi come vapori gli sfumati clamori dei suoi traffici. Dietro quella che mi parve la magione o fortezza d’un Re, eretta nell’imo dell’isola (poi avrei capito il perché), sorgeva il porticciolo, presso il quale erano amarrate numerosissime canoe, simili a tante matite colorate. Le alghe azzurr’oro dei fondali, visibili nell’acqua mera, accarezzavano le loro carene, come dita maliarde di ragazzine. Fosforescenti meduse morte rilucevano nelle scogliere. Ma in quell’attimo, quando la città, con tutte le sue torri additanti il cielo, mi parve una faretra colma di frecce pronte a trafiggermi, subendo ancora l’effetto del narcotico prima iniettatomi, caddi preda di un invincibile torpore.

venerdì 20 aprile 2012

domenica 15 aprile 2012

LE NUBI IN CIELO SI ACCOPPIANO NUDE

Le nubi in cielo si accoppiano nude.
Il vento scuote lontano i palmizi,
scaraventa i datteri al suolo come
caramelle gommose per monelli
disattenti. La pioggia inacidita
logora le curve tettoie d'eternit
lucente ove si posano i gabbiani
a conversare con luce d'agosto.
La ricca signorinella conduce
a spasso il suo barboncino lambita
dallo sguardo del giovane africano.

sabato 14 aprile 2012

SCIOGLI LE TRECCE, RAGAZZA PUNK (sinossi)


(novella neo-scapigliata)

1. A Siena, lungo via Pantaneto, il ‘Conte’ fulvio e il ‘Marchese’ amedeo, studenti snob della Facoltà di Lettere, conversano di letteratura e del fatto che il Conte non abbia ancora trovato una fidanzata. Ma mentre passano davanti al bar Passiflora, frequentato dai punkabbestia, il Conte nota una giovane punk molto carina.
2. Contemporaneamente, all’interno del bar Passiflora, clelia e palma, due studentesse punk di Antropologia, parlano di ragazzi, scorribande sessuali e del fatto che Clelia non abbia ancora trovato un bel fusto che se la impalmi per bene. Ma d’un tratto Clelia si accorge di essere osservata fuori da un tizio distinto.
3. Al Green Tea Room, in piazza del Mercato, il Conte Fulvio, il Marchese Amedeo e la ‘Contessa russa’ helena conversano di letteratura e linguistica. Amedeo vorrebbe introdurre Helena nel salotto esoterico-letterario degli Aristogatti, convinto che lei possa divenire l’ideale compagna del Conte Fulvio, ma tra i due sembra non esserci alcun feeling.
4. A mezzanotte, nel cimitero Laterino, il Conte Fulvio si aggira in preda a un delirio amoroso e parla da solo come Amleto pensando alla punk, che lo ha stregato con uno sguardo. Nello stesso tempo, in via Dupré, al bar Skontro, la punk bisbiglia da sola sognando uno stallone gentile che infine se la chiavi con romanticismo. Di ritorno dal cimitero, il Conte passa per via Dupré e incrocia proprio la punk. A Siena è facile incontrarsi. Si presentano; due chiacchiere; si danno appuntamento per il giorno successivo.
5. Il giorno dopo, nel giardino della facoltà di Lettere, il Conte e la punk s’incontrano e cominciano a parlare di letteratura e di droghe. Sembrano essere opposti e complementari. Si danno di nuovo appuntamento per il giorno successivo.
6. Fuori dalla facoltà Clelia raggiunge Palma ma si accorge che c’è anche enrique, il suo ex-ragazzo, uno spacciatore colombiano che vorrebbe rimettersi con lei. I due discutono ferocemente.
7. Il giorno dopo, nella Fortezza Medicea, il Conte e la punk passeggiano e parlano di come spesso la vita imiti la letteratura, in una mimesis al contrario (secondo il Conte). Infine la punk insegna al Conte la tecnica del bacio.
8. La sera, in piazza Matteotti, presso un fast food, il Conte e la punk cenano a lume di candela antizanzare, ma mentre la punk va in bagno, il Conte viene disturbato da un membro di una baby gang di Latin King, legata a Enrique, che lo minaccia con un “questo fidanzamento non s’ha da fare”.
9. La sera del giorno dopo, vicino a Porta San Marco, dove si radunano gli Aristogatti prima di recarsi alla loro riunione, il Conte cerca di introdurre la punk (dopo un leggero restyling) all’interno della setta letteraria, ma il Venerabile Queli mostra non poche resistenze. Dopo svariate gaffes della punk l’ingresso le viene definitivamente precluso. Il dialogo concitato verte sull’opposizione tra letteratura popolare e letteratura d’élites.
10. La notte seguente, presso un casolare in mezzo alla campagna, la punk cerca di introdurre il Conte (conciato come un semi-punk gentile) in un folto gruppo che organizza rave-parties. Quella sera c’è un concerto degli Skalmanati. Il Conte compie una serie di gaffes e gli viene precluso l’ingresso. Obbligato a bere e fumare marijuana tutto d’un fiato, si sente male e sviene. Viene preso a calci da qualche punk che si sente preso in giro.
11. Il Conte viene ricoverato in ospedale per due notti. I genitori sono saliti dalla Sicilia. Incrociano Clelia che gli sta portando dei cioccolatini. Furiosa lite. Dopo quello che è successo vogliono che non lo frequenti più. Clelia esce. Anche il Venerabile Queli la attende fuori e le fa capire che deve lasciare il Conte, poiché appartengono a mondi diversi e distanti. Clelia fugge e cerca di rintracciare Enrique.
12. Nel parco della Lizza, Clelia incontra Enrique, per farsi dare di nuovo un po’ di ‘roba’, ma il colombiano le chiede in cambio una prestazione sessuale all’interno della sua Mercedes in un luogo più isolato. Clelia accetta; più tardi torna a casa, a San Prospero, si sniffa la sua striscia di coca, ma muore di overdose.
13. Due giorni dopo, nel cimitero del Laterino, si svolgono i brevi funerali. Palma rivela a Fulvio che si è trattato di omicidio premeditato di Enrique (la roba era tagliata male) e che bisogna vendicare quel gesto avventato uccidendolo. Il Conte promette che si vendicherà. Il punk thomas, in rappresentanza degli altri amici di Clelia, chiede scusa a Fulvio per i fattacci dell’altra sera e promette che si vendicheranno sui giovani Latin King fiancheggiatori di Enrique. Dopo il funerale il Conte va a casa, telefona a un certo Calogero, killer e spacciatore appena uscito di galera. Poi davanti allo specchio, quasi pazzo, giura che riesumerà il cadavere dell’amata quanto prima per consumare il fatidico atto d’amore mancato in vita.
14. Dopo pranzo il Conte torna in cimitero e cerca di parlare con barnaba, il vecchio becchino ancora afflitto da qualche turba. In cambio di denaro chiede di poter riesumare il corpo quella sera stessa. Dopo una lunga trattativa, barnaba alla fine acconsente.
15. Dopo mezzanotte il Conte si ripresenta ai nastri in cimitero, dove barnaba, il becchino morboso e turbato, lo attende assieme a due muratori albanesi, che si occupano di scavare e riesumare la cassa che contiene il cadavere della punk. La cassa viene poi caricata s’un Fiat Ducato 14 bianco e il Conte, gli albanesi e la punk morta si dirigono in centro, nei pressi del monolocale del Conte, il quale ha ricevuto in dono dal becchino un blocco di ghiaccio (utile per mantenere poi fresco il corpo dell’amata) e un rompighiaccio. La cassa viene portata nel monolocale. Fulvio vuole consumare una notte d’amore con il cadavere (necrofilia) ma poi accade qualcosa d’imprevisto che qui non rivelo. 

martedì 27 marzo 2012

LE CARCERI TEATRALI (sinossi)

  (Novella neo-scapigliata a metà tra gli 'Hunger Games' di Suzanne Collins e gli incubi di Kafka)

Introduzione* Ovviamente in origine c’è un manoscritto. Stavolta è stato trovato dal medico psichiatra Ottavio Santori, che si è anche improvvisato filologo per l’occasione, apportando forse più correzioni (e interpolazioni) del dovuto.
Cap. I La storia, narrata in prima persona da Edoardo Sirini, è datata 184..., si tratta di una ‘classica’ narrazione di viaggio, dalle Canarie verso l’Atlantico. Ma un uragano coglie di sorpresa l’equipaggio ed Edoardo si ritrova superstite in un’isola non proprio deserta e non meglio identificata.
Cap. II Nel momento del risveglio si ritrova in una sorta di Carcere dalla complessa forma di panopticon (come teorizzò Jeremy Bentham). Nella cella limitrofa, separata da un tramezzo, comincia a dialogare una buffa creatura erudita e logorroica. Scopre che si tratta di un pappagallo poliglotta dotato di intelligenza, di nome pico manfùrli, ma faticoso da sopportare dopo un po’ di loquela sciolta. Edoardo nel frattempo riceve la visita di un ‘funzionario’ delle Carceri, alfonso, che gli intima di imparare a memoria un lungo monologo vergato su dei fogli. In seguito irrompe anche il carceriere balicàn, un nano mostruoso che parla un linguaggio tutto suo.
Sette giorni dopo Edoardo riceve di nuovo la visita di Alfonso per parlare dello strano monologo che gli è stato affidato. Edoardo vorrebbe sapere qualcosa di più, ma il meccanismo di quel certamen risulta essere ancora oscuro. Alfonso si offre di aiutarlo in quella difficile prova, ma in cambio di probabili favori sessuali; Edoardo rifiuta stizzito.
Cap. III Qualche giorno dopo Edoardo riceve stavolta la visita di una ragazza grassa e tarchiata, chiamata angiola, una concubina della Corte Reale, che cerca di carpirgli delle informazioni. In seguito Pico, che dall’altra parte del tramezzo ascolta tutto, si dilunga in commenti sullo strano magnetismo esercitato da Edoardo. Il carceriere Balicàn irrompe come al solito, ma stavolta è interessato più all’uccellaccio che ad altro. Per il momento di accontenta di divorare un ragno pingue nella cella.
Cap. IV Edoardo trascorre il suo tempo nella cella a memorizzare il lunghissimo monologo in compagnia di un altro ragno, scarafaggi, uno scorpione e delle lucciole. Tutti gli insetti sembrano avere anche un valore simbolico.
Cap. V Edoardo trascorre le sue giornate in cella di isolamento quasi con serena accettazione, scopre così di celare un mondo nella sua interiorità, amplifica le sue qualità visionarie e pratica forme di meditazione basate sulla precisa visualizzazione degli spazi architettonici. Ricostruisce la forma delle Carceri che sono inscritte nella forma della città ciclopica che è inscritta nella forma dell’isola arcana.
Cap. VI Dopo il primo mese di detenzione viene condotto dal cappellano athanasius nel Piano Superiore delle Carceri, completamente diverso dal primo: vi sono ampi spazi come se si trattasse d’una cattedrale circolare con scalinate (alcune tronche), portali, arazzi e vetrate multicolori (per avere un’idea parziale si può confrontare tale visione con le Carceri di Piranesi, ma più luminose e serene).
Cap. VII Edoardo, ramingando libero per quella struttura, s’imbatte in una meravigliosa fanciulla, erica. Scopre da un certo maxwell, un vecchio pirata inglese, che Erica appartiene alla Corte Reale, ma si occupa dei prigionieri più bisognosi per spirito di filantropia. Questo suo atteggiamento sarebbe anche fomite di invidie nella Corte, ma lei è troppo importante per essere ostacolata.
Stavolta Edoardo s’imbatte in Pico Manfùrli, che è libero di svolazzare goffamente nel Piano Superiore delle Carceri; anche lui ha appreso un lungo monologo ed è convinto di poter trionfare nell’oscuro certamen che li attende. Lunghissima, verbosa, ma spassosa digressione di Pico sulla retorica del testo teatrale, sui Drammi Sacri recitati nell’isola a mo’ di rituali (dagli esiti ancora oscuri) e sulla natura diabolica della donna che avvinghia l’uomo nelle sue spire (allusione all’infatuazione di Edoardo per Erica).
Cap. VIII Buffo intermezzo. Balicàn, sgattaiolato nei Piani Superiori, cerca di accalappiare con l’astuzia l’uccellaccio intellettuale, ma non vi riesce. A bloccarlo sopraggiunge Alfonso, che salva Pico dalle grinfie del nano per guadagnarsi finalmente il favore di Edoardo, ormai amico affezionato di Pico. Ma Balicàn stizzito chiama a sé Angiola per mostrare come Alfonso infastidisca ripetutamente il prigioniero Edoardo, con avances a sfondo erotico, il che è proibito dal regolamento delle Carceri. Nasce una forte discussione tra Alfonso e Angiola, a colpi di accuse e ricatti incrociati: infatti Alfonso è un messo fidato della Signora (molto potente nell’isola) mentre Angiola è concubina prediletta del piccolo Re (figlio della Signora ma detentore dello scettro del comando, pur essendo immaturo, ovvero ancora un bambino libidinoso e ottuso). Ma nel mezzo del litigio appare Erica che scioglie il conflitto e chiama a sé Balicàn. Dialogo stilnovista tra Edoardo ed Erica, una sorta di donna angelicata e perfetta per le virtù spirituali.
Cap. IX Erica vuole aiutare Edoardo a comprendere la natura e la dinamica dei Drammi Sacri e delle procedure per l’accesso ai Giochi e quindi conduce Edoardo da un certo Guglielmo Rabacci (il vero padre della fanciulla) che abita in un casotto in un giardino pensile allato delle Carceri. Edoardo scopre così che Rabacci è l’autore dei testi prolissi e barocchi che i prigionieri devono mandare a mente (ognuno per conto suo, inconsapevole della parte altrui: sarà il Regista poi a incastrare tutto). Rabacci espone parte del Regolamento dei Drammi Sacri e illustra la storia dell’isola e dell’ultima dinastia sanguinaria al governo: lui stesso è rimasto vittima dell’ostracismo della Corte, continua a vergare i suoi chilometrici drammi alla Lope de Vega, ma vive in quell’esilio dorato accanto alle Carceri, in un giardino segreto, dove porta avanti anche i suoi studi di botanica.
In una seconda seduta Rabacci illustra con maggiori dettagli la storia dell’isola, le cui ciclopiche costruzioni sarebbero antichissime, addirittura risalenti all’Impero di Atlantide, descritto così bene da Platone nel Timeo e nel Crizia. Rabacci cerca di chiarire altri aspetti del complicato meccanismo del certamen teatrale, che vede coinvolta l’intera città nella scelta degli attori migliori. Ma non tutto viene esplicitato: vi sono cose che devono rimanere segrete fino alla fine. Ciò che appare evidente è il destino tragico di gran parte degli attori non all’altezza del ruolo; i mediocri vengono subito abbattuti, i meno bravi ma non mediocri permangono in stato di schiavitù e dovranno esibirsi anche il semestre seguente, i migliori hanno una sorte contraddittoria, potrebbero essere sacrificati in pompa magna agli Dei o potrebbero guadagnarsi la Grazia e quindi la libertà. Ma di rado accade. C’è un’evenienza particolare però, quella di “due attori di grado superiore” e dunque eccelsi: uno viene sacrificato, l’altro liberato. Questa volta potrebbe presentarsi tale opzione. Indovinate un po’ quali sono i due grandi attori secondo le scommesse dei bookmakers? Edoardo e Pico Manfùrli...
Edoardo è stupito dal fatto che nelle Carceri e nell’isola esistano così tante regole barocche ma non sempre rispettate il che crea l’instaurarsi di un assurdo doppio binario: crudeltà nei confronti dei prigionieri che infrangono le regole e anarchica corruzione dell’apparato burocratico che dovrebbe provvedere a far rispettare le leggi per non turbare l’inesorabile funzionamento della macchina statale.
Cap. X Edoardo abbandona definitivamente Rabacci che gli ha dato una gran mano (su interessamento di Erica) in modo da permettergli di essere più consapevole di fronte alle prove difficili che si profilano all’orizzonte. Edoardo nelle Carceri stavolta s’imbatte nel regista Martino Sequeli, caotico e chiacchierone, assolutamente inadeguato per il ruolo che ricopre. Più tardi Edoardo incontra altri prigionieri piuttosto disorientati e preoccupati per l’esito della vicenda, si tratta per lo più di ‘carne da macello’, naufraghi inadatti a recitare, mandati allo sbaraglio e lasciati in pasto al ludibrio della folla sadica dell’isola. Tra questi spicca per la sua evidente follia un certo Napoleone, un classico esaltato.
Cap. XI Il mattino seguente è il grande giorno. I prigionieri si assiepano ai piedi di una scalinata che conduce all’uscita, vigilata da guardie che si divertono a compiere piccole angherie. Gli attori vengono chiamati uno per volta per esibirsi nel loro monologo caotico o frammento di dialogo, il certamen sembra durare l’intera giornata, un vero rituale da delirio. Giunge anche il turno di Edoardo che rimane stupito alla visione della città ciclopica. È a forma di anfiteatro e la scena è costituita dal tetto delle carceri che poi sprofondano in parte nelle viscere della terra. Inoltre la città s’inerpica su per l’altura dell’isola, che quindi sembra un Teatro geologico. L’intera folla cittadina lo osserva, nonché la Corte Reale, situata in un palchetto laterale. Il Re è un bambino dalla testa enorme!
Cap. XII Edoardo termina la sua esibizione, osannato dalla folla. Terminato il Dramma, si svolgono le laboriose votazioni. Infine il Re avrà il compito di leggere la lista dei condannati e dei salvati da un rotolo appena vergato. Cominciano le selezioni feroci; viene dichiarata aperta la procedura dei “due attori di grado superiore”. Ma la Corte si divide sul sacrificio e sulla Grazia. Edoardo o Pico (come previsto)? Scoppia un putiferio inatteso all’interno della Corte, vi sono richieste di una doppia Grazia, fatto inaudito, il Re si spazientisce e allora condanna entrambi al sacrificio.
Qui mi fermo poiché il finale è davvero movimentato e inatteso, come il massacro finale di The Wild Bunch di Sam Peckinpah, ma con ulteriori varianti. La storia narrata sembra anche essere un’allegoria o una prefigurazione di un futuro distopico e tirannico.




* Questo racconto è presentato in verità come lunga novella fantastica e grottesca scritta in carcere dal Conte, protagonista della novella "Sciogli le trecce, ragazza punk" e personaggio secondario in "Solitari si muore".

sabato 25 febbraio 2012

TRE BARBONI MORTI


Era ormai il terzo barbone che veniva trovato morto a Roma negli ultimi due mesi. Per la precisione con la gola recisa con forza da una mano esperta. Stavolta la vittima giaceva davanti a un androne buio e sporco a metà strada tra la stazione Termini e Castro Pretorio. Gli altri due erano stati trovati non molto lontani da lì, uno nei pressi di San Lorenzo, vicino alla mensa Caritas, l’altro verso lo Scalo, accanto a un bidone dell’immondizia. Ormai era chiaro che si trattava di un unico assassino che per oscuri motivi si ostinava a colpire dei senzatetto indifesi. Poche o nessuna traccia venivano lasciate. Ma la scia dei delitti faceva impennare le vendite dei giornali e i cronisti di nera si scervellavano nel seguire le piste più elaborate: estorsione ai danni dei barboni, regolamenti di conti, spacciatori, prostitute, clandestini. La polizia fece un blitz persino nei vagoni abbandonati nello scalo dove dormivano decine di immigrati, per stanare il possibile assassino. Ma si brancolava nel buio.
Dei delitti inspiegabili si occuparono ovviamente svariati programmi televisivi. Un barbone tedesco, giovane e intelligente, divenne persino opinionista fisso, grazie alle sue competenze e si riscattò quindi da un sicuro destino di miseria. Una troupe di un programma più volte si aggirò di notte nei pressi di Termini per intervistare qualche derelitto senza denti: quell’esempio di raffinato realismo sociale si guadagnò un discreto successo di pubblico.
Finché una sera una giovane studentessa americana un po’ brilla non notò qualcosa di strano. In una viuzza nei pressi di piazza dei Cinquecento un barbone con la bottiglia in mano e una coperta addosso sembrava prima parlare e poi discutere con un tizio di corporatura robusta con un cappotto che gli arrivava fino ai piedi. Il barbone sferrò una bottigliata in testa al tizio e cercò goffamente di scappare inciampando quasi nella coperta bucherellata. Il tizio fece per inseguirlo e agguantarlo, nonostante gli colasse del sangue da una tempia, ma la studentessa, testimone del gesto, cacciò fuori un urlo, allora il tizio subito si fermò e scappò dal lato opposto. Il barbone stanco si accasciò in un angolo e si mise a pregare; l’americana fermò un taxi e fece chiamare la polizia. Agli agenti il barbone, abbastanza lucido nonostante i fumi dell’alcool (ormai evaporati), raccontò di essere stato avvicinato da un uomo con un berretto da militare e un lungo cappotto, che gli chiese perché facesse quella vita, perché si era ridotto in quello stato, se non si vergognava, se era possibile soffrire così e altri discorsi di tal genere. Poi, dopo un “ti compatisco e ti vorrei aiutare”, cacciò fuori un pugnale da Rambo e avvicinò la lama alla sua gola. Il resto è noto.
Ovviamente le indagini si concentrarono tutte intorno a Castro Pretorio, anche se non era facile indagare nell’ambiente della caserma militare. Vi fu anche un’indagine militare interna e si risalì a un reduce dell’Afghanistan, con una ferita alla testa, che aveva cominciato ad accusare dei disturbi mentali da sindrome post-traumatica da stress. 
Ma ciò che spingeva i cronisti a interrogarsi sui fatti di sangue accaduti e ormai in parte svelati era la natura del movente. Non poteva trattarsi di mera follia o almeno tale follia doveva avere una sua logica interna spiegabile alla massa dei lettori ansiosi.
Un giorno un barbone rilasciò una testimonianza a un settimanale: «Una notte anch’io incontrai quell’uomo, mi guardava torvo e diceva: “Ne ho visti tanti come voi, laggiù. Con le palandrane e le lunghe barbe. Ognuno poteva essere un uomo-bomba. Voi potreste essere imbottiti di esplosivi. Voi, barboni, siete come loro, siete dei talebani, qui a casa nostra, io devo difendere me stesso e la mia Patria, io devo farvi fuori!”».
Il barbone riuscì a scappare lanciandogli in fronte un barattolo di pelati Cirio.